In questi giorni molto si è parlato del vivere e del morire e credo che nessuno di noi sia rimasto indifferente ad un tema che in fondo ci riguarda tutti profondamente. Lontano dalle polemiche alle quali abbiamo assistito vorrei lasciare qualche riflessione, condivisibile o non condivisibile, ma di certo accorata.
Per me, che da anni lavoro per l‘affermazione della Vita nell‘esistenza di chi a me si rivolge, mi sono parse alienanti e piene di ipocrisia e retorica molte delle affermazioni ascoltate in questi giorni in difesa della Vita e mi sono tornati in mente, con il rammarico di chi sa che nulla è cambiato, i primi scritti di Wilhelm Reich. Chi di voi ha un po’ di conoscenza del suo pensiero sa quanto egli avesse rispetto per quello Spirito Vitale che vedeva rigoglioso nei bambini e martoriato da quelle sovrastrutture, da quella pseudo educazione che nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza cercano di darci, addomesticandoci e trincerandoci in corazze che poi richiederanno anni per essere smantellate. Ai bambini è dato lo scorrere libero dell’Energia Vitale, la naturalezza dell’innocenza, l’innocenza di chi non attribuisce a nulla etichette di “male” e di “bene“, ma vive semplicemente secondo natura, secondo l’innata capacità di essere al mondo totalmente, con lo Spirito e con il Corpo tramite il quale esso si manifesta, l‘uno parte integrante dell’altro.
In quella male-educazione persecutoria e colpevolizzante del “bene” e del “male”, a cui tutti, chi più chi meno, siamo stati sottoposti, si cela il supremo attentato alla Vita negli uomini, quella Vita che, per natura, ci appartiene e che, per morale, ci viene sottratta. E’ in questa espropriazione della nostra reale natura che si realizza il più grave torto alle nostre esistenze, perché quando si priva il Corpo della sua Vitalità gli si sottrae la sua essenza e lo si riduce ad un semplice pezzo di carne, oggettivando la Vita al di fuori di esso, come un concetto, un’idea, un miraggio. E si sottrae all’uomo la sua Verità, perchè così come il Corpo diventa carne, l’abbraccio genitale diventa sporca sessualità, il piacere diventa peccato, la pulsione di Vita diventa pulsione di Morte. Quando nelle nostre Chiese vediamo le parole che Cristo pronunciò “io sono la Via, la Verità e la Vita” confinate sui nostri altari, si rende chiara tale oggettivazione e la sua messa a distanza da noi. Quel Cristo che è in noi, in tutti gli uomini, viene oggettivato e posto fuori da noi stessi, dal Corpo che siamo, dal Corpo con il quale viviamo e che, dagli stessi religiosi, viene considerato come un “Tempio”. Solo nell’ottica di una tale oggettivazione, solo in questo allontanamento della Vita dal Corpo, ridotto ad un insieme di cellule, tessuti, vasi sanguigni, muscoli, si può considerare vitale un Corpo che non può più amare, che non può più sentire, guardare, toccare, gustare, che non può più godere della natura, dell’arte, dell’amore e di tutto ciò che rende davvero vivo un Uomo.
Solo in questa perversione dell’idea di Uomo, si può considerare Vita un Corpo che può solo ricevere il nutrimento essenziale per la sua sopravvivenza e che è destinato esclusivamente al degrado che il tempo farà subire alle sue carni, la cui cura è totalmente assegnata a terzi, nella più completa privazione anche di quella dignità che ognuno vorrebbe conservare sia nel proprio vivere che nel proprio morire. In questo atteggiamento, in questa considerazione del Corpo come un pezzo di carne e non come il sacro strumento di cui ci serviamo per vivere, come fa sapientemente un musicista con il suo pianoforte, con il suo violino, per suonare la sua musica, la sua melodia, ho rivisto, purtroppo, le parole di Reich ancora pienamente attuali. Mi chiedo se chi ha così strenuamente opposto la sua voce a quanto poi si è realizzato, continua nelle proprie case ad annaffiare quelle piante che ormai sono morte solo perché c’è ancora un vaso con della terra secca all’interno o se invece considera vive solo quelle che germogliano, che fioriscono, che liberano profumi nell’aria e che continuano a mutare con le stagioni. Chi come me, da anni lavora con il Corpo ed ha fatto esperienza, grazie ai propri pazienti, di come nel Corpo sia scritta la propria storia, la storia di un padre assente, di una madre distante, di una separazione, di un marito alcolizzato, di una violenza subita, non può che augurarsi che in futuro, lontano dalla demagogia dei politicanti e dalla morale dei religiosi, di esso si possa avere una nuova e più dignitosa considerazione e che la Vita, quella che interi ci abita e ci abbraccia, possa davvero essere difesa, nella sua forma più nobile, più alta, più vera, a cominciare da quella che fiorisce naturalmente nei nostri figli.
Gianfranco Inserra