“Se è vero, come assicura la saggezza indiana, che il corpo è lo strumento previsto per adempiere la vera legge della nostra natura, risulta che ogni avversione definitiva per la vita fisica è necessariamente un’avversione verso la totalità della Saggezza divina ed un abbandono degli scopi che essa ricerca nella manifestazione terrestre.”
Sri Aurobindo
Tutti o quasi almeno una volta ci siamo innamorati, un giorno abbiamo incontrato qualcuno in un bar, in una serata tra amici, al lavoro e di quell’incontro abbiamo fatto un’emozione, e poi un’altra ancora, e poi emozione dopo emozione quell’incontro è diventato un progetto condiviso. Con quell’uomo o quella donna ci abbiamo fatto l’Amore, ci abbiamo trascorso i giorni e le notti, ci abbiamo fatto un figlio, e così per anni, senza accorgerci dello scorrere del tempo. Poi un giorno davanti allo specchio, o una sera rigirandoci nel letto prima di dormire, ci ha afferrato un senso di vuoto, di incompiutezza, di non realizzazione, che non abbiamo saputo neanche raccontare e quell’uomo o quella donna nel nostro letto quasi ci è apparso uno sconosciuto. Così armati di tutto il nostro coraggio siamo andati da uno psicoterapeuta per farci dire cosa all’improvviso non funzionava più dentro di noi, per chiedere la medicina per guarire da quella sensazione dalla quale non riuscivamo più a liberarci. E’ una storia comune a molti, quella di scoprire che forse qualcosa non è finito, forse qualcosa non è mai iniziato. Mi torna in mente l’immagine che Fossati ci rende dell’Amore nella canzone “La costruzione di un Amore”, che è quella di un palazzo da costruire piano dopo piano, con fatica e con gioia, verso il cielo, ma spesso ci si ferma molto prima, a quel piano intermedio che ci rende mediocremente felici, non così poco da farci tornare alle fondamenta e ricostruire, ma neanche abbastanza per darci la spinta per salire. Questa non è la sorte di ogni storia ma è la sorte di molte, perché dopo un tempo impossibile da definire perché diseguale per tutti, qualcosa dentro di noi prende a battere colpi, in maniera sempre più forte, più decisa, fino a non poter più lasciare quella sensazione inascoltata. Tutti questi amori sono stati sbagliati… no…. probabilmente no. Forse tutti questi amori sono stati ancorati ad una parte di noi, a quella che ci rende uomini, lasciando vuota ed irrealizzata quella che invece ci rende déi. L’Amore, come ho già ricordato altrove, nasce da Pénia che è la mancanza, il bisogno, ma anche da Pòros, che simboleggia il passaggio, il viaggio, la trasformazione. Potrei dire, concedendomi qualche libertà, che nella prima fase di una relazione è la madre Pénia che vince, che muove, anche in chi non è spinto dalla necessità della solitudine e sta bene con se stesso perché, in fondo, così come il bisogno vuole essere colmato così il benessere vuole essere condiviso.
Ma la madre ci rimanda ad un Amore simbiotico, nel quale non c’è differenziazione ma fusione, mentre è il padre, Pòros, che ci consegna al mondo, che ci rivela l’esistenza dell’Altro e dunque la nostra, e questo è ciò che dovrebbe avvenire in una fase più matura e consapevole di una relazione. Un Amore, in quanto figlio di entrambi, dovrebbe portare con sé queste parti e avere spazio e coraggio a sufficienza affinché esse si manifestino, ma la realtà spesso è ben diversa. Non di rado mi è capitato di sentir dire, dai miei pazienti ma non solo, che l’Amore dovrebbe farci trovare la persona con la quale star bene per la vita, con la quale sentirsi felici, appagati e al sicuro, a tal punto da comprare una casa, promettersi il futuro e creare una famiglia. Ma in fondo tutto questo è sufficiente solo ad una parte di noi che ha piedi ben radicati a terra, non a quella che ha braccia rivolte verso il cielo. L’Amore ci chiama ad assolvere quanto di più arduo c’è per un essere umano e cioè attraversare la propria condizione terrena per accederne ad una divina, spirituale, della quale non sappiamo pressoché nulla e per questo spaventevole. L’Amore, quello autentico, è molto lontano dal romanticismo e dall’immaginario al quale spesso lo associamo. L’Amore è prima di ogni cosa un’esperienza di profonda violazione, di violenza, che ci obbliga alla morte di uno schema, di una struttura, di un’idea, di un Io nel quale ci riconosciamo e ci identifichiamo, che ci argina e ci limita, e senza il quale noi non sappiamo più chi siamo. Con l’Amore ci spogliamo non solo dei nostri abiti ma di un senso di identità creato e controllato dalla mente per accedere a dimensioni altrimenti inviolabili in cui l’individuo cede il passo ad una condizione sacra dell’esistenza, davanti alla quale l’umana ragione non può che impallidire. L’Amore come scrive George Bataille “è l’accettazione della vita fin dentro la morte”, è la vita portata all’estremo della vita, fino a deprivarla del confine stesso nel quale noi la rinchiudiamo. L’Amore è il passaggio verso uno spazio che non è uno spazio ed un tempo che non è un tempo, attraverso un linguaggio indecifrabile che qualcuno ha definito codice dell’anima, incomprensibile alla mente umana. L’Amore attraverso Eros è a questo che ci conduce, alla nostra deflagrazione, alla nostra rottura verso l’Altro e quindi verso l’essenza che è dentro di noi. L’Altro è il nostro biglietto per salire su una nave senza destinazione alcuna se non quella di casa, a casa da noi, tramutando l’esistere in essere. L’Amore, pertanto, ha una funzione per l’essere umano del tutto differente dalla sicurezza, dalla protezione, dalla certezza, che è invece ciò che solitamente cerchiamo; la funzione dell’Amore è l’es-posizione, è lo s-confinamento, è l’apertura, è lo smarrimento di ciò in cui ci ritroviamo, ed è solo la presenza e la presa dell’Altro che ci offre la possibilità di smarrirci insieme alla garanzia di poterci ritrovare. Se priviamo l’Amore di questa dimensione lo snaturiamo, lo rendiamo servo delle nostre necessità, dei nostri bisogni, e non più qualcosa di sacro che va coltivato, nutrito, custodito, non per il fine ultimo di avere una famiglia e una casa condivisa, ma per il fine ultimo di essere e di superare la propria finitudine. E’ proprio in questo lasciarsi infrangere, in questo morire, che ci apriamo veramente alla vita, assolvendo al fine ultimo della vita che altro non è che la vita stessa. Nel momento in cui lasciamo che questo disfacimento si realizzi, oltrepassiamo la soglia della ragione ed entriamo in quel mondo di silenzio e beatitudine, non dissimile da quella provata dai mistici e dai santi, basti ricordare le esperienze di estasi di San Francesco o di Santa Teresa, o le esperienze di illuminazione dei mistici orientali, e questo non significa che ci stiamo ricongiungendo con l’Altro, noi ci stiamo ricongiungendo con quella Altra metà di noi che anela mondi sconfinati e che si realizza solo quando si apre all’Assoluto. Nel momento in cui l’Amore, incarnandosi nell’Eros, ci libera dalla nostra egoità, dal nostro sterile ripiegamento su noi stessi e ci slega dalla catene in cui l’Io e il Super-Io ci imbrigliano, possiamo dissolverci nella continuità della quale facciamo parte, nel Tutto, nell’ ordine cosmico delle cose.
Non possiamo, però, parlare di Amore prescindendo dall’Eros, perché questa sublime unione e morte e vita, ha il suo culmine nelle braccia dell’amato, nell’atto di Amore, nell’orgasmo che è il momento di più grande violazione di un essere umano, strappandolo dalla sua ostinazione di veder durare l’essere discontinuo che è. L’amato ha in sé la promessa di liberarci dal nostro essere individuali e l’erotismo in cui esso si incarna è ciò che più mette a repentaglio la nostra individualità e frammentarietà. E’ una magia che però la maggior parte di noi manca, confondendo l’erotismo con una bieca sessualità che tutto reca in sé tranne che l’Amore, ma è una magia con delle basi molto più biologiche e naturali di quanto non si pensi. Può amare solo chi è totalmente presente nel corpo e non scisso da esso, solo chi ha in sé una condizione energetica tale da poter compiere quel salto verso l’ignoto. Immaginate di dover fare un viaggio impegnativo con la vostra auto ma di partire senza benzina, potreste arrivare ben poco lontano. Per l’Amore vale lo stesso, quanto più le vostre radici si immergono nel terreno tanto più i vostri rami potranno crescere verso il cielo, quanto più il vostro corpo è capace di inoltrarsi nel piacere, tanto più potrà accedere alla dimensione dell’Amore e del divino. Wilhelm Reich distingueva il carattere genitale da quello nevrotico, proprio dalla capacità del primo di autoregolazione, di provare e cercare piacere e quindi di vivere la sessualità, come ogni altra esperienza della vita, in maniera libera e gioiosa. Nei caratteri genitali l’energia scorre liberamente, seguendo il naturale soddisfacimento delle pulsioni, contrariamente ai caratteri nevrotici in cui assistiamo alla perdita della capacità di autoregolazione ed alla sottomissione delle naturali pulsioni della persona ad una morale coatta, con un conseguente blocco energetico nell’ambito dell’armatura caratteriale. Sebbene la biologia sembri lontana dal concetto così alto che abbiamo dell’Amore in realtà non lo è, l’uomo è Uno e se gli appartiene una qualche forma di spiritualità, essa si manifesta prima di tutto nel corpo; un narcisista, vittima del suo Super-Io, resterà bloccato energeticamente al livello del collo e del bacino e per quanto potrà sforzarsi di perdersi in un atto d’Amore, la sua energia resterà imbrigliata tra questi due segmenti e, come ricordavamo prima, senza benzina non si arriva poi così lontano. Forse ora apparirà a molti anche più chiara la sofferenza di coloro che non riescono a darsi profondamente rimanendo incatenati in questo limbo in cui il dare ed il ricevere ed il perdersi, perdono la loro dimensione naturale per diventare avversivi rispetto all’ordine coatto costituito e, pertanto, così faticosi da realizzare. Ma è un limbo popolato da molti. Già Reich ai suoi tempi parlava del comune modo meccanico di fare sesso, tipico dell’uomo corazzato, il quale non entra nella dimensione dell’Amore e dell’Eros ma solo della sessualità fine a se stessa, contrariamente all’uomo con carattere genitale che, invece, sente il flusso della vita, vibra della sua energia e, pertanto, può “fare l’Amore”, lasciandosi sommergere dal flusso dei sentimenti, così come ci descrive lo stesso Reich: “La ricerca della comune esperienza di supremo piacere nella fusione completa di quei due fluidi sistemi di energia che chiamiamo uomo e donna, questa stessa ricerca e muto ritrovarsi nelle sensazioni dell’amato e in un vero brivido cosmico, è un puro piacere, limpido come l’acqua di un torrente di montagna e delizioso come il profumo di un bel fiore in un mattino all’inizio della primavera”.
Questa è la premessa fisiologica per sperimentare il Mahamundra, l’orgasmo totale, uno stato in cui il corpo non è sentito più come materia ma come energia che pulsa, dapprima all’unisono con l’amato con il quale si dissolve, poi con il Tutto. Purtroppo ciò che spesso ci troviamo a vivere è ben diverso da quanto descritto, la sessualità diviene una routinaria masturbazione a due, niente di più, non diversa da quella che potremmo agire singolarmente e si smette di coltivare o non si inizia affatto quella consapevolezza di sé e quell’attenzione al cuore indispensabili perché si possa realizzare quest’atto trasformativo. Il fare davvero l’Amore fino a renderla un’esperienza di trascendenza è cosa assai rara, quanto più perché richiede la coincidenza favorevole di una molteplicità di variabili che non sempre è possibile nel medesimo luogo e momento, come la presenza di un reale sentimento, di un rapporto profondo, di una fiducia reciproca, come la volontà ed il desiderio comuni di mettersi in discussione, di compromettere la propria immagine al servizio della verità, rinunciando a qualsivoglia forma di ego; e più di ogni altra cosa la capacità imperturbata di dare e ricevere la vita, accettandola nelle sue estreme conseguenze, che è propria dei soli caratteri genitali e questa condizione o è una rarità o è frutto di un percorso di evoluzione di un carattere nevrotico. E, infine, c’è l’Altro che dovrebbe essere nella medesima condizione o, in caso contrario, nella volontà, nel desiderio di crescere e di evolversi. C’è chi condivide un’intera vita senza mai neanche avvicinarsi a questa dimensione, così come c’è chi in un solo incontro, per una strana alchimia d’amore, riesce a viversi questo piccolo miracolo tutto umano. Come ci ricorda Osho “l’Amore può contenere il sesso ma il sesso dà sé non può inglobare l’Amore”, non si può mettere il più grande nel più piccolo. Questa consapevolezza non ci dovrebbe precludere alcuna esperienza, tutto è importante nella vita, nella misura in cui contribuisce al nostro star bene e alla nostra evoluzione personale, e poi meglio del buon sesso che un cattivo Amore. Ma si impone anche un atto di onestà verso noi stessi e verso le persone che ci sono accanto, al fine di chiamare le cose con il nome che gli appartiene e di comprendere che non possiamo trascurare per anni una parte di noi stessi che anela a qualcosa di più del visibile e pensare di essere indisturbatamente felici. Quasi sempre pensiamo che sia l’Altro la causa del nostro malessere, che sia l’Altro a non darci più abbastanza, ma in realtà l’Altro spesso non ha fatto nulla di più o di meno di quanto non facesse solitamente, è quella parte di noi che anela a tornare a casa che prova nostalgia, l’Altro ci restituisce solo un messaggio che noi stessi inconsapevolmente gli abbiamo consegnato. Diceva S. Agostino che l’intero scopo di questa vita è aprire l’occhio del cuore con il quale vediamo Dio e che la trascendenza ci rende più umani proprio perché esaudisce questo progetto umano. Per natura ci è stato dato l’Amore per avvicinarci a certe dimensioni e non dovremmo mai dimenticarlo. L’unyo mistica, quella sacra unione tra due corpi e quindi tra due cuori, attraverso la risalita dell’energia primordiale che è la kundalini, come ci insegnano i nostri saggi orientali con il tantra, è una porta accessibile a tutti verso l’estasi, verso la beatitudine, verso il Dio che abita in noi e, se ci arrendiamo ad esso, verso quel flusso di energia che tutto avvolge e tutto attraversa. E chissà che l’Amore, così inteso, non si riveli anche la via maestra per far sì che un incontro con l’Altro sia davvero un incontro e non solo un incastro di corpi, un miscuglio di odori, di sapori, di umori. Questo vi garantirà la durata di un Amore? Forse no, ma forse vi garantirà almeno di averlo incontrato nella sua forma più autentica e soprattutto di aver incontrato voi nella vostra essenza, trascendendo questa condizione umana che è il nostro limite ma anche la nostra unica possibilità.
Gianfranco Inserra
2 comments
Nino
27/04/2021 at 12:04
Molto bello e informativo , ti fa pensare e maturare!
Sabina Siracusa
03/01/2024 at 7:59
Fantastica lettura !!
Ho compreso ogni parola e ne sento il vero in ogni sua sfumatura …
Mi è arrivata dentro come un pugno perché ho la fortuna di sapere cosa è esplicitato nella profondità dei concetti espressi.
Un dono inenarrabile
Grazie