In questa notte d’autunno sono pieno delle tue parole parole eterne come il tempo, come la materia, parole pesanti come la mano scintillanti come le stelle. Dalla tua testa dalla tua carne dal tuo cuore mi sono giunte le tue parole le tue parole cariche di te le tue parole, madre le tue parole, amore le tue parole, amica. Erano tristi, amare erano allegre, piene di speranza erano coraggiose, eroiche le tue parole erano uomini.
N. Hikmet
Ogni giorno, sebbene sia specializzato nel lavoro reichiano, per ore uso la parola, il dialogo, il logos, per conoscere l’animo umano, scandagliarne le profondità e scoprire ciò che ha da dire. Ed ogni giorno, a chi come me ha scelto di lavorare con le parole e con i sentimenti, si presenta uno scenario per alcuni versi antico ma per alcuni versi nuovo. La stanza della psicoterapia, forse, è rimasto uno dei pochi luoghi in cui si continua a parlare di “Anima” e non solo, uno dei pochi luoghi in cui è all’Anima che si vuole parlare ed è all’Anima che si vuole dare voce, alla maniera maieutica socratica tesa a “tirare fuori”, a portare alla luce ciò che è nascosto. L’arte della levatrice insomma che ci ricorda, peraltro, le figure di accudimento a cui il terapeuta, inevitabilmente ci riconduce, talvolta riuscendo ad incarnare un’esperienza riparatrice rispetto a quella originaria. Ma la psicologia, con la tradizionale distanza del terapeuta da questo dialogo mediante la restituzione verbale al paziente solo al termine della seduta, come avviene nell’approccio analitico, o con l’interpretazione della parola e dei suoi valori simbolici come rappresentativi di mappe mentali e di schemi comportamentali, tipica dei più recenti orientamenti cognitivi, forse ha fallito il suo compito e cioè quello di parlare all’Anima e di ascoltare l’Anima, un ruolo un tempo assegnato al saggio del villaggio, al vecchio, allo sciamano, al medico, al maestro, al padre spirituale. Ha fallito probabilmente perché è rimasta sempre più intrappolata nella parola intesa come forma, come simbolo, e forse perché l’uomo di questo nuovo millennio, è un uomo nuovo, ricco e sapiente di parole e simboli, che però non sa più usare nè riconoscere. Il dialogo, infatti, è un’arte. La maggior parte di noi crede di saper dialogare ma in realtà non è così, sappiamo parlare ma non è detto che ciò significhi comunicare. Il dialogo richiede la capacità di esprimersi, di raccontarsi e al contempo quella di ascoltare profondamente ed empaticamente l’altro, compenetrandone i vissuti, le emozioni, i pensieri, e cosa non poco rara, richiede queste medesime qualità nell’interlocutore. Invece, nella realtà delle cose, siamo molto più bravi nei soliloqui, in quanto meno rischiosi e molto più appaganti narcisisticamente, ma non solo. Accettare, accogliere le parole dell’altro significa aprirsi alla sua esperienza, al suo mondo interno, infrangendo dunque i propri confini e facendosi attraversare da qualcosa che non ci appartiene, eppure esiste.
E significa saper rivolgere uno sguardo indulgente a stessi, uno sguardo capace di cogliere qualsiasi cosa in noi dimori, prescindendo dalla sua coloritura, e prendere per mano l’altro per mezzo delle parole, per condurlo in quel caleidoscopio di immagini che è la nostra Anima, senza paura, senza inganno. La premessa di questa incapacità di dialogo, quindi, sembra risiedere in una limitatezza che ha a che fare molto più con se stessi che con gli altri, e cioè nell’incapacità di ascoltarsi, nelle proprie emozioni, nei propri desideri, nei propri stati d’animo, fino a perdere quella voce che dentro cerca di farsi spazio e che potrebbe essere il nostro canto guida se glielo permettessimo. In realtà, non siamo esseri né superficiali né meschini, siamo solo impreparati a questo tipo di esperienza in quanto mai, o quasi mai, educati affettivamente all’ascolto di se stessi e al confronto con gli altri, quali eredi di una tradizione autoritaria secolare presente nelle nostre storie familiari che ancora non cede il passo alla ricerca dell’essere autentico dei figli e al confronto reale coi padri e, poi, quali componenti di questa società della comunicazione sterile e dell’apparenza effimera che certo non aiuta ad allontanarsi da questa cattiva tradizione, semmai rafforza, sulla base di altri leit-motiv, un atteggiamento nato da tutt’altre condizioni storiche e culturali. Già da qualche tempo si parla di analfabetismo di ritorno, inteso come difficoltà nella lettura e nella scrittura in persone adulte dotate di media cultura. In realtà è un fenomeno che, a chi lavora nell’ambito delle relazioni di aiuto, balza all’occhio in maniera prepotente anche sotto un’altra veste. Gli analfabeti che oggi si riconoscono più numerosi sono gli analfabeti nel linguaggio dei sentimenti, nel linguaggio del cuore, come se fossimo diventati tutti un po’ alessettimici, incapaci di riconoscere ed esprimere ciò che proviamo. E’ l’eredità di questa dilagante disattenzione all’essere ma anche la cartina di tornasole delle paure profonde che i sentimenti muovono nell’essere umano. Il dialogo, soprattutto nelle relazioni affettive, è il luogo delle proiezioni, il luogo non solo degli incontri ma più spesso degli scontri fra due Io che vedono e sentono le cose esclusivamente dal proprio punto di vista egocentrico, il luogo della lotte tra due considerazioni interne, per dirla con parole gurdjieffiane, che in realtà non vedono l’altro, non ne colgono l’alterità, ma lo vivono come un’appendice di sé, a cui non possono essere riconosciuti pensieri ed emozioni differenti dai propri. Il dialogo così concepito diventa un monologo al servizio dell’autoaffermazione di sé e non dell’incontro, della comunicazione e della chiarificazione. Perché? Perché il dialogo, usato in maniera maieutica, è un gran scoperchiatore di vasi di Pandora, rivela le nostre contraddizioni, le nostre scissioni, le nostre debolezze, i sentimenti e le paure che non ci concediamo, rivela quelle storture dell’Anima che la rendono tutta umana; per questo meglio è scappare, fuggire dalla propria “umanità” è più semplice è usare, soprattutto in amore, metalinguaggi o linguaggi fisici, corporei, che sebbene sembrino più diretti in realtà ci rivelano meno e ci difendono di più.
Oggi la parola, nella sua accezione più alta, spaventa, perché è la verità che spaventa e noi non siamo più abituati ad essa, né alla verità del mondo, nè alla nostra. Sentirsi dire una frase semplice come “ti amo” diventa un’esperienza spaventosa e destabilizzante, non per la persona che la pronuncia ma per l’angoscia di perdersi che scatena in noi, e stranamente anche per l’angoscia di ritrovarsi, così meglio darsi alla fuga prima di scoprire troppo di sé da esserne spaventati. Ma pensiamo a cosa potrebbe invece significare restare, ascoltare ed ascoltarsi, lasciando che le parole seminino dentro di noi, non le troppe parole dei media, non gli stimoli comunicativi continui che ci provengono da ogni parte e dai quali ci lasciamo sopraffare per colmare i nostri presunti vuoti, ma le parole semplici e profonde che aprono solchi e creano sentieri dentro di noi rivelando pienezze inaspettate. La parola può fare miracoli se le consentiamo di agire, riattribuendole il contenuto e non solo la forma che le appartiene, e se consentiamo a noi di conoscerci e all’altro di farsi conoscere, trasformando il dialogo da luogo di fraintendimenti e di fantasmi, quale è diventato, a luogo di alétheia, di dis-velamento. Questo ci consentirà non solo di riappropriarci di noi stessi ma anche di riappropriarci della presenza dell’altro, che nel nostro egocentrismo, resta fuori dalla nostra sfera, fuori dalla nostra vita, perché un altro che non è riconosciuto è come non esistente. Oggi, quando avrete terminato di leggere queste righe e vi alzerete dalla vostra scrivania per uscire e fare la spesa, per andare a lavorare, per andare a prendere vostro figlio a scuola o per preparare la cena, prestate attenzione alle persone che incontrerete, a quello che direte loro e a quelle che loro vi diranno, prestate attenzione. L’attenzione è una virtù che va coltivata, iniziate a farlo nella comunicazione e vi accorgerete di quanti pezzi di voi sono nascosti nelle vostre parole e di quante fotografie dei propri pensieri e sentimenti gli altri vi stanno lasciando con una semplice frase. Trasformate un dialogo inutile in un dialogo utile e lasciate che gli altri non siano più lo specchio sul quale vedere riflessa la vostra immagine ma anche lo specchio rotto sul quale quella stessa immagine viene infranta. Ne nascerà qualcosa di nuovo.
Gianfranco Inserra