TELEFONO +393394434936

 

Il padre e la perdita necessaria

04/01/20100

“Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno, un padre, un amore, qualcuno, capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume, immaginarlo, inventarlo, e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno – un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare.”

Alessandro Baricco, Oceano Mare

“…E romperò le acque della casa nostalgia, per vedere coi miei occhi e sentire chiare parole e suoni, giocando col domani…”

Litfiba, Goccia a goccia

Da sempre la psicanalisi si è interessata al ruolo della madre e della funzione materna nella formazione della nevrosi e nell’evoluzione umana. La società, nel suo complesso, soprattutto negli ultimi decenni, ha dedicato ampie pubblicazioni e considerazioni a questa figura, ritenendola il fondamentale, se non unico, termine di riflessione delle fortune e delle sventure psico-fisiologiche della specie umana. La funzione paterna (ma anche il ruolo del padre) è stata nel tempo spesso bistrattata e fraintesa, relegata in secondo piano rispetto a quella materna, considerata anche come simbolo di una cultura patriarcale che andava necessariamente smantellata e combattuta, sebbene gli illustri studiosi del pensiero e dell’anima abbiano separato da tempo le due funzioni materna e paterna, attribuendo ad ognuna precise peculiarità e collocandole entrambe nel proprio ordine temporale e funzionale. Il ruolo che la funzione paterna ricopre nella strutturazione della personalità, non è né secondario né subordinato per importanza a quello materno, ma complementare ad esso in quanto qualitativamente diverso.

Sin dalla nascita –senza contare la vita intrauterina- siamo soggetti ad una serie di separazioni, iniziando proprio con quello che Otto Rank definisce “il trauma della nascita”: la prima, dolorosa perdita dell’unità originaria madre-bambino nel quale la vita dell’uno coincide con quella dell’altro; lo spezzarsi dell’universo simbiotico che Erich Newman illustra con l’immagine dell’Uroboro originario, il serpente che si mangia la coda, come rappresentazione della circolarità madre-figlio in cui nessuno sviluppo è possibile. Tante sono le separazioni a cui andiamo incontro dall’uscita del ventre materno: dover respirare da soli, assumere cibo, camminare, defecare, imparare un linguaggio per esprimere i nostri bisogni, imparare a stare da soli e così via fino a confrontarci con l’esperienza “estrema” della morte che è poi il simbolo per eccellenza di ogni perdita. Nell’unità psichica madre-figlio non esiste distinzione, non esistono confini, il bambino vive un’esperienza verso il mondo che è di confusione/indistinzione. Il mondo caotico del bambino ci insegna a comprendere la necessità della separazione e del dolore che comporta abbandonare la simbiosi perfetta. Nell’infanzia l’esperienza del dolore della separazione fonda in una persona sana la capacità di distinguere fra sé e il mondo esterno. Ma, quale dolore? Il senso di questo sentimento rimanda a quel malessere interiore che è la conseguenza del fare i conti con la nostra limitatezza, con la nostra imperfezione, con la nostra incapacità, con l’abbandonare l’onnipotenza dell’unità originaria, di quel mondo in cui i bisogni non dovevano essere espressi ed erano però magicamente esauditi.

Dunque finché il bambino resta nella pancia della madre il bisogno a tutti gli effetti è garantito: il nutrimento e il calore di cui necessita il suo organismo lo riceve direttamente dalla madre stessa. La nascita pone fine a questa condizione di omeostasi, di beatitudine intrauterina, pone termine all’era del bisogno e fa scattare l’era della domanda. E questa rappresenta un’ulteriore separazione. In seguito, il bambino divenuto adulto, dovrà provvedere da solo al suo sostentamento. Se da un lato il rompersi della simbiosi genererà smarrimento da parte del figlio, dall’altro questi, uscendo dal mondo fusionale della madre, ne guadagnerà in autonomia ed umanità ed andrà definendosi come individuo. La condizione di simbiosi col mondo materno nel corso dell’esistenza verrà quindi infranta più volte, anche simbolicamente, ma spesso ciò avviene solo a livello fisiologico e non a livello intrapsichico. Perché si superi l’infanzia in quanto stato psichico dell’individuo è necessario che egli esca anche psicologicamente dall’avvolgimento protettivo materno, dal delirio onnipotente, ed entri, simbolicamente nel mondo del padre, della realtà, nella società.

La prima funzione psicologica e simbolica del padre è quella di organizzare, dare uno scopo, alla materia nella quale il figlio è rimasto immerso durante la relazione primaria con la madre; la prima ferita, che il padre porta su di sé, e provoca al figlio, è la separazione dalla simbiosi con la madre. Senza relazione col padre lo sguardo rimane, in fondo, rivolto al passato, all’Eden perduto, alla relazione aproblematica, per sempre appagante, che si sarebbe desiderata con la madre. Si continua a guardare indietro. Il ruolo del padre diventa quindi determinante nel momento in cui sollecita l’uscita dal legame simbiotico con la figura materna e l’apertura al mondoesterno, favorendo in tal modo l’autonomia affettiva e la crescita. Anche l’analisi freudiana collega ciò che chiama “angoscia di evirazione” a più generali esperienze di perdita.

L’accesso alla genitalità e al desiderio per un oggetto esterno non sono garantiti dalla maturazione biologica. Per Freud, è la castrazione simbolica ad aprire l’accesso alla genitalità e al desiderio verso un oggetto dell’altro sesso. Castrazione intesa come la legge del padre che interdice l’incesto e che rompe perciò la relazione duale madre-figlio, mettendo così fine al complesso di Edipo, durante il quale il bambino desidera la madre ponendosi in rivalità con il padre. Freud riconosce come nella minaccia di evirazione, che sanziona il divieto dell’incesto, compaia la funzione della Legge in quanto istitutiva dell’ordine umano.
Questo concetto è ripreso e ampliato da Lacan che considera questa problematica uguale per il bambino e la bambina, indipendente perciò dalla differenza anatomica tra i sessi.

Il padre rappresenta, oggi come sempre, il polo opposto e anche complementare a quello femminile: è colui che separa il bambino dalla madre, inducendolo ad uscire dal suo stato iniziale di dipendenza passiva per assumere un atteggiamento più attivo e autonomo verso se stesso e la propria vita. La funzione del padre però va ben oltre l’essere solamente un agente protettivo che libera la madre; si è visto, infatti, come egli abbia una funzione di garante dell’esperienza che il bambino fa di sé fin dal seno materno, e tuteli la sua soggettività. La mancanza, infatti, di un riferimento al padre, nei primi periodi di vita del bambino, pone una serie di problemi rispetto all’emancipazione emotiva della madre e del figlio ed il bambino, in tal caso, avrebbe in dotazione un solo modello relazionale, il modello materno, cioè fusionale. Attraverso la presenza paterna, il figlio passa da un amore incondizionato, all’amore condizionato, un amore soggetto alla legge. Questa risulta essere la fondamentale funzione paterna che permette ai figli di guardare la madre dall’esterno, e garantisce il rimodellamento della loro identità nel corpo fisico e psichico. La funzione principale del padre non può che essere quella di aiutare i figli ad “essere se stessi”.

Il padre è la figura che rimanda al senso e al significato dell’esistenza, al suo scopo e alle domande più impegnative sulla vita. La figura paterna porta quindi nella vita dell’uomo una direzione, realizzata attraverso la rinuncia al caos, alla dismisura. Quest’azione lega indissolubilmente la relazione col padre all’esperienza spirituale, all’uscita da una dimensione dominata esclusivamente dalla materia. È in questa accezione che si svolgono molti riti iniziatici –nella società occidentale non ne esistono più: assistiamo al togliere i bambini dalle braccia della madri ed alzarli verso il cielo, che corrisponde al togliere i nuovi individui dalla dimensione orizzontale, caratteristica della materia e della conservazione delle cose, e collocarli lungo l’asse verticale della ricerca di sé e dell’Altro, di ciò che è al di là e al di sopra delle cose di quaggiù.

La capacità di sopportare ogni ulteriore dolore, e perdita, poggia, per questi individui che si avviano verso l’età adulta durante i riti iniziatici, su questa prima ferita, su quel dolore, che li trasforma, da figli, in uomini. Venire strappati dalle braccia della madre, come i popoli tradizionali rappresentano nei loro riti iniziatici, è già una perdita decisiva, pertanto in tutte le culture, la separazione del figlio dalla madre è un evento centrale non solo per la vita del figlio, ma per l’intera comunità. Il bimbo che entra nella relazione col padre, con l’uomo adulto, portatore della norma, sperimenta di non essere onnipotente, di essere vincolato a regole, a volte penose, che deve rispettare. Al figlio, un padre che svolga la propria funzione, deve mostrare (anche attraverso il proprio esempio), che la vita inevitabilmente lo ferirà, ma che il suo valore emergerà e crescerà attraverso la capacità di affrontare e reagire a queste ferite. L’amore nel rapporto padre-figlio si colora così, fatalmente, di aggressività (il figlio non ha nessuna voglia di accettare la ferita) e di ribellione al padre. È molto duro per entrambi, ma é necessario che accada.

Però è proprio la consapevolezza del “perduto per sempre”, che nella vita umana è rappresentato dall’unità onnipotente madre-figlio, che scioglie da ogni ansia di onnipotenza, e l’individuo rafforzato dalla funzione del padre vivrà molto più debolmente l’angoscia derivante dal distacco dalla madre. Il vissuto conscio della perdita, la consapevolezza, toglie timore e finalmente libera dalla paura. Per questo il padre infligge la prima ferita, affettiva e psicologica, interrompendo la simbiosi con la madre, proponendo da quel momento allo sviluppo del bambino, una direzione, una prospettiva. Ogni prospettiva però focalizza lo sguardo su alcune direzioni e ne esclude altre, valorizza dei comportamenti a scapito di altri. L’intervento del padre limita in una prima fase, la vita del figlio; lo “ferisce”, per renderlo più forte. La funzione materna è quella dell’accoglienza, del contenimento e del nutrimento, quella paterna ci consente di separarci dall’utero in cui siamo stati accolti per nove mesi, per entrare in un nuovo mondo; è la stessa funzione che poi ci consentirà di separarci dalla famiglia ed entrare nel mondo sociale.

Il padre, nella nostra cultura, dà il nome al figlio, definisce cioè l’identità del figlio e la definisce come altro da sé e dalla madre. Nel momento che il figlio si sente chiamato con il proprio nome e riconosciuto come altro, cioè con un proprio corpo, una propria individualità, può separarsi da quell’utero nel quale è stato contenuto e cresciuto e sentirsi nato. Il padre sottrae l’uomo all’ineluttabilità dei condizionamenti biografici, delle nevrosi raccolte nella storia familiare. L’alleanza col padre può fare dell’uomo “altro” dalla somma delle tipologie e patologie familiari e ambientali. Senza il padre, figura dell’origine ma anche del futuro, viene persa l’irrinunciabile novità di ogni individuo, destinato, ognuno a suo modo, a trasformare il mondo.

Essere figli del padre equivale dunque ad essere potenzialmente liberi. Il figlio è responsabile di cosa farà della sua condizione: se realizzerà il progetto di libertà, o se sceglierà i condizionamenti e le patologie messe a disposizione dal piano “orizzontale” della materia. Il padre insegna che la vita non è solo appagamento, conferma, rassicurazione, ma anche perdita, mancanza, fatica. Le esperienze più profonde, a cominciare dall’amore, prendono origine e forma proprio da quella perdita. Il padre porta nella vita umana l’esperienza dinamica del muoversi, dell’andare e, assieme a quella, una libertà dall’attaccamento, dall’egoistico trattenere e trattenersi. Il padre dunque presiede al viaggio, al movimento, alla trasformazione della coscienza. La funzione del padre nella realtà quotidiana, è quella di colui che deve provvedere all’inserimento ordinato del figlio nel mondo, nel rispetto delle leggi umane.

Uno degli strumenti principali col quale il padre fa crescere la potenzialità trasformatrice del figlio è l’educazione al lavoro, nella quale è possibile trasmettere tutta una serie di insegnamenti decisivi per un pieno sviluppo umano: l’apprezzamento per la qualità del lavoro svolto; la sincerità e l’impegno nella relazione con gli altri; la capacità di reggere la fatica, non solo intellettuale, ma anche manuale e psicofisica. Il figlio che ha ricevuto l’insegnamento paterno sente la consapevolezza della necessità umana della perdita, in colui che invece non ha ricevuto quell’insegnamento, non si riaccende mai la consapevolezza di nessun dolore, casomai sostituito da una sorda, a volte nascosta, depressione. L’essere il portatore della ferita nella vita dei figli, per esempio sotto forma di regole, di indirizzi, di limiti, ha senso in quanto la ferita sia un passaggio in un cammino di crescita, in un processo trasformativo dotato di obiettivi. Il padre promuove, guida o comunque non evita ferite e separazioni, come tappe nella crescita del figlio verso la piena partecipazione alla vita.

Questo colpo, doloroso, rende chi lo riceve più forte: quando verrà la perdita, esperienza non evitabile nella vita umana, essa non lo distruggerà psicologicamente e spiritualmente, anzi, egli saprà trarne il succo più prezioso: l’amore. Amore per sé, amore per gli altri: entrambi si temprano nell’esperienza della perdita, non nella vanità del successo, e neppure nell’illusoria sicurezza del possesso. Per trasmettere la ferita, senza diventare semplicemente sadico, il padre deve però averla a sua volta ricevuta su di sé. Deve essere stato iniziato da un padre che gli abbia trasmesso il senso profondo della paternità. Il padre, dunque, è innanzitutto, in prima persona, una “portatore della ferita”; per questo ne può trasmettere al figlio la sensibilità e anche la ricchezza: la capacità di reggerne il dolore e di coglierne il senso.

Il padre insegna anche il controllo e l’utilizzo positivo della propria aggressività; il figlio che non incontra l’insegnamento paterno, non sa più cosa fare di tutta l’energia che sente dentro di sé, destinata a cambiare il mondo, e rischia di dirigerla non in senso trasformativo, ma distruttivo, contro di sé o contro gli altri. Alcuni studiosi ritengono che l’estromissione della funzione paterna sarebbe la causa principale dei gravi problemi di coesione sociale che caratterizzano il nostro tempo: in primo luogo l’indebolimento complessivo dei legami sociali, fondati sul principio “paterno” di responsabilità, quindi l’aumento della violenza e la perdita di senso e orientamento nella vita. Il mondo paterno rappresenta la mappa del vivere, le regole necessarie per potersi orientare, che consentono ai figli di affrontare l’esplorazione della vita e del mondo con riferimenti chiari e sufficienti. La caratteristica di questo spazio è quella della chiarezza: il paterno è chiaro, definito, sufficientemente comprensibile. Ed è un’offerta di libertà perché così dev’essere, perché il significato della regola sostanzialmente è questo: garantire di poter agire, muoversi e decidere dentro spazi possibili. Complementare al mondo sommerso e languido del materno, esiste il mondo dell’emerso privo di ambiguità, che appartiene al padre.

Esiste anche un altro vissuto tipicamente paterno che è quello degli interessi vitali. Il codice paterno sembra per antonomasia portatore di interessi vitali, ossia di connotazioni dell’esistenza che denotano le potenzialità evolutive. Può essere nell’ambito del lavoro, dello sport, delle intelligenze acquisite o da acquisire, della socialità. La figura del padre guida a scoprire le proprie potenzialità. Il padre è anche colui che aiuta il formarsi dell’autostima e dell’identità sessuale. Il giovane senza padre, che non viene iniziato al maschile, non ha volto, e non ha genere: è portatore di un’identità incerta, ambigua, e quindi ha paura. L’uomo “matrizzato”, iniziato dalla madre, non possiede per istinto una direzione, ignora in quali territori, in quali forme, la sua identità maschile lo porterebbe a trovare gioia e realizzazione.

La donna che sperimenta un deficit paterno risente, nell’instaurare la sua relazione con la società, di una profonda insicurezza, di competitività esasperata, attraverso la quale cerca l’approvazione impersonale della società, dell’azienda, del gruppo politico e così via. Per la donna la funzione specifica della figura paterna si colora di contenuti e tonalità particolari. Mentre la madre le insegna il femminile senso della vita e della sua conservazione, l’insegnamento che il padre trasmette alla figlia é piuttosto quello di avvicinare e curare le ferite del mondo. Ella, scoprendo che c’é anche il male, influenzata dal prestigio del padre “giusto”, scoprirà la grandezza, ma anche il piacere, di fare il bene. Il padre ha anche la funzione di “correttore” in quanto persona che contiene le spinte pulsionali indifferenziate e le organizza, indirizzandole verso un obiettivo di crescita umana.

La correzione paterna trasforma il modo di essere dominante nel bimbo subito dopo la nascita e nei primi anni di vita, che è ancora il modo della fusionalità, della non distinzione. Il bimbo è fuso col mondo dei suoi bisogni, che sono anche i suoi affetti, dalla madre alle pulsioni elementari, ai desideri dominati dalla dimensione dell’immediatezza: lo desidero, devo averlo. E’ la funzione di correzione a distogliere il figlio dalla confusione col mondo della materia, delle cose. Questa funzione è esercitata attraverso l’esercizio di un giudizio, netto e non ambiguo, che “taglia la relazione simbiotica con la madre e ci fa sentire figli di un padre”. L’amore paterno è dunque anche rimprovero e correzione, per questo è stato svilito nel tempo della modernità, in cui il rimprovero e la correzione, come ricorda bene Foucault, sono diventate prerogative degli Stati, e non a fine d’amore, ma di accrescimento del potere. In occidente ha preso piede sempre più la svalutazione della figura paterna e delle sue funzioni, da parte di una “società orientata al successo”, questa forma mentis è tesa soprattutto alla conservazione di sé, al guadagno teorizzato dal pensiero economico del capitalismo. Siamo diventati una società che non sostiene alcun dolore della perdita, né frustrazione o smacco. L’occidente ha ridotto la paternità a pura connotazione naturale, biologica, senza essere anche paternità psicologica, emotiva e simbolica. La società senza il padre è un’aggregazione di persone incapaci di reggere le ferite della vita, che vedono la perdita come un affronto personale, più che come una prova dell’esistenza, legata anche al destino spirituale dell’individuo. Guardando alla vita quotidiana, parlano da soli i suicidi per protesta contro un brutto voto o il mancato acquisto del motorino, le enormi difficoltà provocate da ogni separazione, da quelle sentimentali fino al lasciare dover la casa della famiglia d’origine, da cui si fa sempre più fatica ad allontanarsi. Sociologicamente oggi il padre è diventato semplicemente un amministratore, un procuratore di reddito e difficilmente assolve le sue funzioni paterne.

Il marito-padre attuale ha liquidato le proprie responsabilità familiari e sociali e deve ora guadagnarsi l’affetto con la sua valentia sessuale o finanziaria, da qui anche l’ossessione maschile per la performance. Abolite le differenze, il padre metropolitano è tutto da reinventare, la sua parola conta sempre meno, non solo per i figli, ma anche per la sua partner, non è mai all’altezza, non ci sa più fare. L’uomo che non svolge le sue funzioni paterne, tende anch’egli a diventare un eterno adolescente, in perenne ricerca di rassicurazioni narcisistiche, carente dunque proprio sul piano della specifica posizione psicologica maschile e paterna. La crisi dell’imago paterna si ripercuote sui figli, gli effetti sono i sintomi del nostro tempo: un aumento spettacolare e a tutte le età di angoscia e di panico, la ricerca ossessiva di garanzie, il successo che premia l’esibizione narcisistica, il protrarsi dello stato adolescenziale, la ricerca di forme sostitutive più o meno stabili in ideali da venerare o in miraggi da coltivare, la caccia a sensazioni forti con oggetti effimeri quanto insostituibili, l’insistenza edonistica dell’uso e abuso del corpo, in un godimento che si fa sempre più privato, sempre più chiuso, sempre più autistico. “La segregazione”, dice Lacan, “è la traccia, la cicatrice dell’evaporazione del padre”. Con la centralità del valore materno della soddisfazione dei bisogni, funzionale all’espansione dei consumi e quindi alla crescita della società industriale, l’intera società è diventata una Grande Madre. È soprattutto nella veste di “animali da compera” che il sistema mediatico, ma anche politico, si rivolge a noi e il conseguente senso di vuoto che ne scaturisce viene spesso riempito da credenze pseudo religiose ed ideologiche, e data la nostra incapacità, in quanto società, di sostenere frustrazioni ed attese, ricorriamo spesso a sostanze ritenute performanti come alcol e droghe o al cibo per placare l’ansia.

Relegando in secondo piano la figura e la funzione del padre, anche i concetti dell’etica e dello sviluppo della volontà vengono disattivati; il dovere è considerato quasi una brutta parola; il diritto, dal canto suo, perde il suo lato scomodo, di ciò che dobbiamo agli altri, per diventare esclusivamente acquisitivo: ciò che gli altri devono a noi. La cattiva strega, quella che viene vissuta come figura della madre cattiva, la Grande Madre, illustrata anche dalle fiabe, compare quando la figura paterna manca o è emarginata, priva di potere di incidere sulla realtà. Questa situazione rende attiva nella psiche infantile/infantilizzata la figura della madre cattiva. E’ evidente in occidente la caduta di vitalità dell’essere umano, pensiamo ad esempio al continuo rinvio dell’età in cui si esce dalla casa dei genitori, lo smarrimento nelle relazioni, sentimenti e passioni, la moltiplicazione delle fobie, l’aumento della sterilità come somatizzazione della paura di riprodursi.

Questo scenario di scarsa iniziativa e grande passività e dipendenza, è anche il risultato della demolizione della funzione paterna, il cui compito era proprio quello di condurre i figli, attraverso quel lavoro di organizzazione e finalizzazione delle energie, al livello più compiuto dello sviluppo psicologico, capace di una relazione creativa col mondo esterno e caratteristico della personalità propriamente adulta. Lacan già nel 1938 aveva teorizzato che la nascita della psicoanalisi avesse a che vedere con il processo di corrosione che già da un pezzo aveva investito l’immagine paterna; postulato questo in continuità con quello freudiano, che collegava la nascita della psicoanalisi col declino delle religioni. L’argomentazione è lineare: le nevrosi (fobie, isterie, ossessioni) hanno conosciuto una straordinaria fioritura in concomitanza della crisi delle grandi religioni in quanto il sintomo nevrotico costituisce un sostituto del Padre. E perché mai il nevrotico avrebbe dovuto reinventare il padre attraverso i suoi sintomi? Perché la funzione del padre è propriamente quella di offrire al soggetto dei saldi punti di ancoraggio. Da un lato, un punto di ancoraggio nell’identificazione.

Uno degli effetti della liquidazione dell’imago paterna, personale e collettiva, è dunque anche quello di farci regredire allo stadio orale, per esempio: l’incapacità di reggere la tensione dell’attesa o della mediazione; la manifestazione plateale del sentimento, che viene subito spettacolarizzato e diviene superficiale; l’impossibilità d’introspezione. Oltre all’oralità, un altro tipo di regressione è quella caratterizzata da trattenimento, avarizia, comportamenti e fantasie ossessive, fobiche ed azioni sadico e masochistiche. Fanno parte di questo lato sadico della società, la sua tendenza a livello collettivo a dividersi in modo schizofrenico tra iperconformismo-sottomissione e ribellione terroristica. La terza possibilità, vale a dire quella di un’opposizione costruttiva, è stata eliminata. La nostra è una società segnata dal divertimento, dall’allegria (ricercata anche se non sempre trovata), da una “gentilezza” dai tratti un po’ sentimentali, che ha preso il posto di ogni senso tragico. Il segno sotto il quale l’organizzazione sociale si presenta è comunque quello del riso, o sorriso. Ciò è naturalmente coerente col fatto che il confronto con la norma è stato rimosso, proprio per lasciare il ruolo da protagonista al “principio del piacere”, su cui regge la società dei consumi.

L’individuo della nostra società è dunque un tipo apparentemente gentile e adattabile. Eppure, questo individuo considerato sottomesso e conforme alla norma cela in sé un’enorme aggressività, proprio perché “a livello inconscio quella sottomissione è vissuta come una ferita narcisistica intollerabile”. La personalità della modernità non è comunque una persona libera: è “coatta”, costretta ad agire in quel modo, non può fare altrimenti. Il padre è colui che insegna al figlio a sopportare le ferite, organizzando le energie in un progetto dotato di senso. Egli realizza tutto ciò, constata il grande filosofo Michel Foucault, separando i figli dalla simbiosi con la madre, e quindi proteggendoli. La sua scomparsa dunque rende difficile reggere le ferite prodotte dalle perdite che accompagnano la trasformazione e lo sviluppo umano. Nessuno accetta , ad esempio, di non essere più giovane, la perdita dell’adolescenza è diventata un lutto insopportabile. Tra tutte le perdite, quella più inaccettabile da parte della società è naturalmente la morte, massimo simbolo di trasformazione.

La cultura occidentale è stata la prima che si è impegnata a togliere significato all’esperienza della morte. La morte, in occidente, non è più trasformazione né passaggio, ma soltanto esperienza ormai priva di senso, in una società che vuole solo ottenere, aggiungere, guadagnare. In questi anni abbiamo preferito mettere il piacevole al posto del piacere; la cortesia da “politicamente corretto” al posto del sentimento profondo (col suo tenace rispetto per la verità); la commedia cinematografica borghese piuttosto che l’epica e la tragedia. La cultura di oggi nega la morte ma non fa altro che respingere nella morte: attraverso l’uso massificato della medicina, che da una parte prolunga la vita con ogni sorta di accanimento, e dall’altra, attraverso gli interventi di chirurgia estetica, mette ripetutamente a rischio la stessa vita e l’equilibrio delle persone. Della morte dunque non si parla in modo sacro, ma al massimo con famelica curiosità.

La nostra è una civiltà liquida, come sostiene Zigmunt Bauman, ibrida, delebile: è il concetto d’identità nella sua globalità che va in pezzi. Sono cambiati i processi produttivi, le nuove tecnologie hanno reso tutto più fluido e frammentato, tutto viene ridimensionato e declassificato, non c’è più spazio per opinioni che si presentino nella dimensione della verità. Siamo nel mondo del relativismo e della scienza invasiva che si spinge, con il suo bisturi indifferenziato e i suoi valori flessibili, nell’area sacra della procreazione, profanandola, staccando ovuli e sperma dal loro universo anche simbolico, cambiando sesso e generando a comando, rimodellando in laboratorio la questione del padre e della madre. Il padre è il rappresentante non solo della ferita, ma anche del dono transpersonale, senza tornaconto egoico, che consente lo sviluppo dell’esistenza e delle relazioni. Ferita e dono sono infatti a livello più profondo indissolubilmente legati tra loro, come dimostra Cristo: è l’uomo ferito che può donare, il dono scende dalla croce.

La figura paterna testimonia il dono sia dando la vita, col seme, sia donando la propria vita quotidiana, di lavoro e fatica, per l’esistenza della famiglia e della società. E’ attraverso questo comportamento attivo, di donazione di sé, di perdita di sé, che il padre porta i figli al pieno sviluppo psicologico: essere con gli altri e per gli altri, come condivisione e donazione. Se nascerà un essere umano nuovo, che avrà riscoperto il padre, si tratterà necessariamente di un essere umano che sa bene che non avrà nessun amore, piacere, sicurezza, se non sarà capace di perdere, di assumersi la responsabilità, da persona adulta, di quest’amore, dei suoi piaceri, e della sicurezza necessaria al benessere suo e degli altri. Sarà come riscoprire una cosa semplicissima, che conosciamo da tempo: nostro compito è amare, e provvedere a noi stessi e ai nostri cari, senza risparmiarci. “L’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita: dovrebbero anche governarla” (Wilhelm Reich).

Riferimenti bibliografici

J.Lacan, Scritti e seminari
S. Freud, Opere

Z. Bauman, Vita liquida
Claudio Risè, Il padre-l’assente inaccetabile

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.